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sabato 18 maggio 2013

...CAPIRE UN PO' DI QUEST'ITALIA IN QUESTA EUROPA - Parte III°


Le ricchissime liquidazioni (ma vogliamo parlare anche delle pensioni?...) di cui godono molti manager, qualora l'ente per il quale hanno operato/collaborato abbia risultati negativi – ovvero, si scoprano successivamente cattivi investimenti o perdite simulate o marchingegni per eludere il fisco ovvero appropriarsi illecitamente di somme di denaro -, devono essere confiscate. E' oltraggioso e ridicolo che soggetti che con la loro impreparazione/incompetenza/cattiva fede abbiano segnato pesantemente le finanze di una società/ente/azienda, nell'essere allontanati da quel posto possano godere di lautissime, ingiustificate, oggi non più giustificabili prebende!

Il concetto fin qui applicato molto poco in Italia, specie ai “livelli più alti”, é che ognuno debba rispondere delle proprie azioni, anche patrimonialmente: quando si mette una firma, quando si sottoscrive un documento, quando si assume un impegno e – soprattutto quando, ad ogni livello e funzione, si maneggi del denaro pubblico - si deve essere consapevoli delle responsabilità al pari dei rischi qualora su questi possano pesare superficialità e possibili tentativi di condizionamento. Prima di ogni firma, prima di sottoscrivere ogni tipo di documento – specie se possa avere conseguenze per la vita, l'ambiente, la salute, la sfera delle libertà dei cittadini, l'utilizzo delle stesse risorse finanziarie/economiche – occorre leggerne i termini, rendersi conto dei contenuti – della loro correttezza formale ma soprattutto sostanziale -, analizzarli – così da valutare a priori quali reazioni/conseguenze potranno scaturire da quell'azione – e infine soppesarli nella loro complessiva attendibilità e quindi congruenza. In sintesi, la sottoscrizione di qualunque tipo di documento – al pari dell'espletamento di ogni azione, così come accade anche nell'ambito delle professioni – deve essere sempre e comunque un'assunzione diretta (ovvero, pro-quota) di responsabilità a verificare la quale – periodicamente, a scandaglio, costantemente: basta emanare delle precise disposizioni al riguardo – devono effettuarsi dei controlli.

Lavoro: vera emergenza sociale, persino piaga sociale! Non si può essere che d'accordo sulla improcrastinabile duplice esigenza: consentire il mantenimento dei già erosi livelli occupazionali (agendo su investimenti e pressione fiscale, incentivando in assoluto l'export, riqualificando le attività produttive aprendole alle nuove tecnologie, ecc.), procedere alla creazione di nuovi posti/di nuove opportunità di lavoro. Entrambi nobili intenti, sostenuti da – più o meno – altrettanto nobili, preoccupate, accorate parole: almeno per quanto ci é dato ascoltare e leggerne nel quotidiano. Ma ancora non è definito, e quindi non é chiaro, chi/come/quando/assumendosi-quali-responsabilità farà qualcosa in questa direzione e soprattutto con quali mezzi: già, perchè per creare posti di lavoro (questo significa che alla pubblicazione della notizia circa la creazione di posti di lavoro, io possa telefonare all'amministratore politico competente/interessato per chiedergli a che ora, presso quale indirizzo e con quali documenti dovrà presentarsi un mio figlio per aspirare a fruirne) significa aver prima un'idea chiara ossia in quali settori specifici – produzione, industria, commercio, turismo, servizi... - in quale tipo di azienda investire e come farlo (a fondo perduto, con agevolazioni, con intervento misto pubblico e privato, ecc.). Soprattutto devono essere investimenti produttivi: non una panacea per dare lavoro per un anno e poi assistere alla chiusura dell'attività per carenza di commesse ovvero di sbocchi commerciali; mi spiego ancora meglio: è inutile pensare a nuove opportunità di lavoro per chi fabbrica fiammiferi, se ormai non se ne usano più. Meglio riqualificare in modo intensivo e rapido la manodopera in cerca di ricollocamento re-indirizzandola verso attività che prevedano una domanda attraverso la quale poter collocare il prodotto. Lo stesso dicasi per il settore “impiegatizio”: sarebbe ora che un qualche autorevole esponente delle Istituzioni parlasse ai giovani, magari a reti unificate, per dire loro che sì è bello studiare, giusto aspirare ad un posto, corretto ambire a rendersi autonomi, emozionante ambire a formarsi una famiglia, utile programmarsi un futuro, ma che oggi il mercato offre solo queste “X” o “Y” possibilità, per cui é giusto ambire ma difficile poterle realizzare, almeno per il momento. Occorrerebbe però non mortificare la speranza di chi ascolta e aggiungere che si provvederà a chiamare dalle liste dei disoccupati per coprire ciò che la domanda propone, provvedendo lo Stato – attraverso i suoi migliori uomini del settore insegnamento – ad insegnare a questi giovani (che hanno studiato da “impiegato”, magari) a fare quei lavori di mestiere che oggi possano risultare scoperti. Vuoi lavorare? Ti aiuto in ogni modo, ma anche tu aiutati! Meglio accettare un posto di lavoro, certamente diverso da quello cui si poteva originariamente aspirare, ma immettersi nel circuito del lavoro e cominciare a guadagnare: a cambiare e migliorare, ci sarà sempre tempo. C'é chi vuole costruirsi una famiglia, non ha lavoro o lo ha perso? Io Stato ti aiuto: ti do un po' di buona terra, te l'affido senza oneri per “X” anni, ti insegno – tramite personale qualificato – a fare il contadino (trarrai così dalla Natura il tuo cibo), a costruirti una casa (ti anticipo io il materiale), a garantirti di assorbire i tuoi prodotti all' “X”% (immettendoli sul mercato) mentre per l'altro “X”% penserai tu a collocarli. D'altronde quante generazioni sono nate e si sono moltiplicate all'insegna del lavoro nei campi? Non é forse vero che moderne scuole di pensiero, tra cui spiccano Pontefici e Premi Nobel, sostengono la necessità di fermarsi e riflettere attraverso una sana de-crescita, una devolution (ossia, un “ritorno”) a più antichi e consolidati valori e attività, per riprendere contatto con se stessi e con il mondo, ripristinando il giusto equilibrio con la Natura. Un modo sano di crescere – come ci ha insegnato la Storia – pur se faticoso. Ma è meglio un lavoro onesto, anche pulire i vetri ai semafori, piuttosto che non sbandare nelle attività illegali: droga, prostituzione, furti.

Occorrerà anche procedere ad una nuova edizione delle liste di collocamento partendo da presupposti diversi (detto elenco, ed il relativo computo, non possono recare dati drogati), distinguendo gli aspiranti per categorie: disoccupati, inoccupati, soggetti in cerca di prima occupazione, cassaintegrati, soggetti in mobilità, iscritti ai corsi di studio, non possono convergere un unico grande dato. Questo, sarebbe drogato per la complessità delle voci ma non sarebbe attendibile nel radiografare la realtà dei fenomeni. Si dovrà poi passare a convocare i soggetti, proponendo poi le possibili opportunità: tre tentativi; mi dici di no? Allora devo ritenere che tu non intenta lavorare, così che potrò passare ad un'altra persona che magari sarà felice dell'opportunità che potrà essergli prospettata; ma non potrai più godere di alcun sussidio, né essere più iscritto alle liste per un anno.

Modifiche fondamentali devono essere rivolte a rimodulare la CIG: le odierne esperienze stanno dimostrando che questo strumento, pur se applicato con fini importantissimi e utilissimo per affrontare situazioni di emergenza lavorativa (ma non tutte le situazioni, nel loro complesso: l'altra faccia della medaglia vedrebbe celebrata la morte della produttività nazionale e lo Stato impossibilitato a surrogare tale ruolo, peraltro posizionandosi come semplice erogatore di provvidenze. Ruolo che comunque si esaurirebbero rapidissimamente, segnando – questa volta sì – la fine del nostro sistema), dissangua risorse strategiche. Sarebbe forse meglio, allora, dirigere queste energie preziose in investimenti produttivi (chiedo scusa della specifica: é ovvio che investire in qualcosa di improduttivo appaia invero sciocco, ma mi sembra che in considerazioni del genere siano già scivolati illustri soggetti, troppo interessati a mantenere sacche di consenso con le tasche altrui) ove ri-collocare – previa quella nuova formazione cui mi riferivo prima, e che possa renderli idonei alle nuove mansioni – queste persone, questi lavoratori. Credo che chi ambisca lavorare per guadagnare e guadagnare per vivere e far vivere la propria famiglia, non sottilizzerà se oggi lavora nella meccanica e domani potrà lavorare – con i dovuti insegnamenti – nel tessile, ad esempio; penso che l'importante sia lavorare: é inutile l'attesa davanti ai cancelli chiusi di una fabbrica, che non si sa se e quando riaprirà i battenti. Mi spiego ancora meglio: ogni euro dato deve rappresentare un “investimento” diretto a creare non solo una parentesi di solidarietà ma, in concreto, indirizzato alla produttività; deve quindi essere un “investimento produttivo”. Allora c'è un significato sociale ancora maggiore che non l'esercizio della semplice solidarietà: tutto deve essere dimensionato alla crescita.

Ovviamente auspicabile, una forte spinta al settore dell'edilizia pubblica, mentre grandissima, concreta e rapida attenzione potrebbe essere rivolta ad un settore che mi sembra fin qui non trattato e che invece riguarda molti aspetti della nostra vita. Come noto l'Italia é un Paese sismico, e fin qui niente di nuovo; é noto che l'introduzione dell'obbligo di edificare con tecniche antisismiche è di fatto recente e riguarda il nuovo, trascurando il preesistente: e fin qui niente di nuovo; é noto che i movimenti tellurici non si sono certo esauriti e che anzi, si prevede che possano – pur se nel tempo - intensificarsi a causa dell'enorme spinta subita per il movimento/scorrimento verso N-NE della placca africana in contrasto con la placca europea, con pieno coinvolgimento del fronte italiano; é noto che la caldera ove insiste il Vesuvio, così come testimoniano i rilevamenti da satellite, é una bomba innescata che non sia sa quando deflagrerà: disastrosamente e con potenziale gran numero di vittime; é noto che i più recenti terremoti, pur se contraddistinti da indici energetici non disastrosi, hanno prodotto molti danni poiché sviluppatisi relativamente in superficie. Tutte cose note, come é noto che lo Stato ha messo a punto un automatismo sulla cui base, anche al verificarsi di terremoti con conseguenti danni, la leva fiscale scatta immediatamente alzando il prelievo a favore dello Stato sulla vendita dei carburanti: un rimedio, almeno in parte, ma non certo una soluzione. Allora, perché non lanciare una grande campagna affinché le “vecchie” case (basta lasciarsi alle spalle i centri cittadini e andare nei mille paesi e paesini d'Italia: proprio quelli tanto belli, ma con le case costruite “come una volta”, pietra su pietra, tufo su pietra, con calce e poco cemento, specie “armato” con tanto ferro) vengano irrobustite. Se la memoria non mi fa brutti scherzi, all'indomani del drammatico e disastroso sisma in Abruzzo, gli inviati che giravano da una città all'altra, da una paese ad una frazione, da un paesotto a un borgo, si imbatterono in una casa che aveva ben resistito: danni praticamente lievi mentre tutto intorno regnava la distruzione. Intervistato il proprietario, questi informò i cronisti che l'abitazione (se ben ricordo, una villetta ad un piano o due) era stata restaurata di recente e poiché si trattava di una vcchia struttura in pietra, in zona sismica, era loro venuto in mente di “irrobustirla”: larghe fasce perimetrali in ferro, rese tra loro solidali, a creare una sorta di gabbia; robusti reticoli elettrosaldati internei ed esterni per costituire un contenimento al “traballare” delle pareti in caso di sisma; rifacimento della copertura con materiali nuovi e più leggeri (per i pesi) ma con sistemi che, sempre nel malaugurato caso di un sisma, non collassassero ma fossero tenuti comunque sempre insieme. Mi chiedo: se venissero date rapide, concrete, direttive (dopo adeguato approfondimento da parte di soggetti esperti: potrebbe darsi che il mio “fanta-ipotizzare” abbia minor valore di un buco... nell'acqua!) l'Italia potrebbe diventare tutto un cantiere. Abitazioni molto più sicure, piccoli paesi che ritroverebbero una nuova realtà (che senso ha definire “centro storico” solo agglomerati di vecchie costruzioni, senza poterle neanche poterle manutenere perchè piene di vincoli e vincolini? Che senso ha avere paesi cui la poca assennatezza degli amministratori ha diviso in due, tre parti, sottoposte ora ai vincoli di un ente-parco ora a quelli paesaggistici ora di antrambi: con il pratico risultato che chi desiderava edificare ha abbandonato il “centro” (svuotandolo) per recarsi nell'area periferica (di fatto divenuta la new-town). Non sarebbe utile, ferma restando l'applicazione di semplici quanto corretti vincoli, dare la possibilità ai cittadini di ogni centro abitato di potersi pronunciare in una libera consultazione al fine di modificare gli attuali ed intangibili “piani regolatori” in più elastici “piani di fabbricazione”? Benefici: rilevanti, sotto il profilo della propulsione edilizia, delle opportunità originate da nuovi posti di lavoro, dai ritorni fiscali (incentivi con il meccanismo della detraibilità), eventuale emersione del “nero” dal momento che i lavori dovrebbero essere condotti da imprese “vere”, “registrate” e “fiscalmente” rilevate.

E' indispensabile che a corredo del mio pensiero, aggiunga una cosa: dove trovare

Una nota a parte – e ben più lunga e dettagliata potrebbe essere – la dedico alla trattazione degli impulsi che sembrano pervadere questo o quel soggetto politico, questa o quella parte politica, nella trattazione della tematica legata alla sfera dei diritti racchiusa nel concetto di ius soli. Utile e ovvia premessa é quella che non sussiste in me volontà discriminatoria o razzista o alternativo-ostativa della solidarietà. Ma è pur vero che per esercitare la solidarietà e quant'altro di bello/utile/valido/nobile possa esservi, occorre che la solidarietà sia prestata con animo intenso e disinteressato, ma anche che vi possa essere un ritorno nell'impegno: così che, chi riceve solidarietà, possa essere messo anche in condizione di poter esprimere analogo impegno. Ciò detto, e preso atto di quella che é la realtà sociale/economia/finanziaria/sanitari dell'Italia, con un drastica e drammatica revisione/riduzione dell'assistenza sanitaria (con moltissimi scosti diretti ed indiretti a carico del cittadino), non si può non prendere atto che sic rebus stantibus non possiamo garantire alcuna accoglienza in quanto non abbiamo né lavoro né pane neanche per i nostri figli (basta vedere le statistiche, comunque per difetto, delle famiglie al di sotto della soglia di povertà o al limite di essa), per cui sarebbe difficile se non impossibile sfamare/mantenere altri soggetti che intendano unirsi agli abitanti di questo nostro Paese. Parlandone chiaro pubblicamente, anche e soprattutto in sede di stampa estera, non ci possono essere fraintendimenti; del pari bisogna spiegare chiaramente che ogni risorsa disponibile deve essere rivolta alla popolazione ancor prima che agli “ospiti” cui – peraltro – ciò che può essere offerto in regime di assistenza neanche basta, visto che nell'ascoltarli tutti sono pronti a parlare di “loro diritti”, reclamandoli peraltro a gran voce, dichiarandosi spesso persino “trattati male” ovvero al di sotto di quello che “si aspettavano”. E' quindi inutile mantenere i costi assolutamente improduttivi dei vari “campi” così come non è più pensabile poter elargire provvidenze e benefici mensili a chi non è italiano, ma è pur sempre ospite – affatto temporaneo -: sarebbe meglio destinare queste risorse economiche ai figli d'Italia senza un lavoro o che non riescono a pagare le rette scolastiche o alle famiglie già in fascia di sopravvivenza, piuttosto che non continuare a “dare senza nulla avere” a chi disdegna comunque (è la storia a dirlo) il lavoro normale, preferendo riferirsi ad una visione di tipo tribale con un tipo di vita che per noi é impensabile ma che viene ricondotto ad una “loro diversa e opposta cultura”. “Cultura” - anzi pseudo-cultura – che dovrebbe essere da noi accettata: anche obtorto collo! Almeno Secondo i teoreti di una integrazione di fatto impossibile: già perché – anche questo é provato, oltre ogni ragionevole dubbio – il concetto di “integrazione” ovvero l'aspirazione alla stessa, é naufragato persino clamorosamente in ambito europeo (l'esperienza tedesca al riguardo ne fu un'anticipazione, neanche un po' presa in esame dalla nostra classe amministrativo/politica); i primi a dimostrare di non volersi integrare nelle realtà socio/politiche (intese nel senso più ampio del termine polis) ospitanti furono proprio gli immigrati/gli stranieri, che così costituivano dei loro nuclei compatti per etnia/fede/visione amministrativa/usanze, gestiti internamente con le stesse regole vigenti nel loro paese d'origine: spesso in contrasto quando non in conflitto con quelle dello stato estero ospitante. In sintesi: soggetti disposti a cogliere le opportunità di lavoro, capaci di far valere quei diritti che lo stato ospitante concede loro, ma fermamente intenzionata a mantenere i propri costumi, le proprie usanze, le proprie modalità di vita sociale/politica/religiosa.

Altro che “integrazione”!

Accantonato questo "sogno" a lungo accarezzato da certa intellighentia nostrana (quella ricca e nazional-popolare, quella demagoga e populista che non dividerebbe la sua casa con una famiglia rom..., quella che parla dei bisogni e della fame altrui mentre si titilla il palato con cibi e vini prelibati e costosi, quella che indossa abiti costosi e non dona un euro ai bisognosi, quella che si commuove per un disperato in cerca di lavoro o per un bambino malnutrito o per le pensioni da fame di centinaia di miglia di pensionati senza offrire un minimo contributo - salvo le tante morbide, umide, eccessive parole - alla "ricostruzione" di quest'Italia lacerata da divisioni, odi, incomprensioni, spinte ribelli) bisogna allora investire ancor di più nell'attuazione ottimale di una società “multirazziale”, con regole precise valide per tutte le parti interessate; soprattutto occorre fermare questa spirale perversa che assorbe risorse che potrebbero essere invece destinate agli italiani, ai disoccupati, ai giovani che cercano inutilmente lavoro! Non si può pensare di poter ancora sostenere quelli che sono dei “lussi”, ovvero “solidarietà mal indirizzata” verso chi non intende lavorare, non ha cultura del lavoro, preferisce delinquere in quanto fa parte delle proprie “usanze”, ma pretende di essere mantenuto, di avere questo o quel diritto, non avendo peraltro alcunché da perdere. Bisogna avere il coraggio di dire: fino a ieri si é potuto fare così, da oggi non é più possibile e quelle poche risorse che abbiamo dobbiamo indirizzarle verso gli italiani. Qui lavoro per ora non ce n'é, per cui è inutile che veniate in Italia – magari a rischio della vostra vita ed a caro prezzo -, non possiamo accogliervi, non possiamo sfamarvi, non possiamo darvi alcuna assistenza sanitaria (visto che l'abbiamo ridotta drasticamente agli stessi italiani), non possiamo darvi un tetto. Tutto qui: poi si vedrà, non appena la situazione migliorerà. Ciò che potremo fare, lo faremo a vostro vantaggio mandando aiuti nella vostra terra: anche perchè – e questo non è mai stato sottolineato abbastanza – le radici di ogni essere, di ogni popolo, vanno rispettate e salvaguardate; così, è più giusto aiutare questi nostri fratelli (sicuramente più sfortunati di noi: almeno secondo i nostri parametri) a crescere nella loro terra senza che debbano allontanarsi dai suoi valori, dalle sue tradizioni, dai suoi ricordi, piuttosto che accoglierli in un modo che in ogni caso non é soddisfacente. Penso, infatti, che non sia dignitoso - per questa gente che arriva, con troppe speranze e spesso con pretese proporzionali ad esse, e quindi sovradimensionate – essere mantenuti, sfamati, vestiti (tutte condizioni che rientrano nella comune definizione di “assistenza”): senza altri sbocchi, poiché é da tempo che non ve ne sono. La stessa cifra del loro “costo” giornaliero in Italia, qualora fosse resa loro disponibile nel loro paese d'origine, avrebbe sicuramente molto, molto, più valore e consentirebbe di poter “fare” più cose e maggiormente produttive.

Senza contare che, al di là della sensazione positiva ed i voli pindarici che il “bene” ed il “far del bene” ci fanno fare, la realtà di queste situazioni è drammaticamente sotto i nostri occhi: esistono dei racket che presidiano in modo capillare ogni settore della vita dei c.d. “extracomunitari” ( ma non solo!), dall'accattonaggio (anche con il coinvolgimento di minori), ai semafori, agli ambulanti, alle donne in strada e di strada, allo spaccio di stupefacenti, ai furti. Non si continui quindi a sostenere il leit-motiv propagandistico/elettorale sulla cui base tutta questa massa di soggetti costituisca una risorsa (ancor peggio se intesa quale rimpiazzo di soggetti italiani che, pur sostenendo di essere in cerca di lavoro... in realtà lo disdegnano): ho conosciuto splendide persone, straniere, che con dignità, forza e coraggio si impegnano quotidianamente in mille piccole attività; modeste ma affrontate sempre con dignità e onestà. Così come ci sono italiani onesti e italiani disonesti, anche tra gli stranieri/extracomunitari avviene ciò: e le male azioni degli uni non possono contagiare gli altri. Ma da qui a sostenere che tutti possano costituire (in positivo) una risorsa e che tutti vadano protetti o che tutti debbano beneficiare di assistenza e quant'altro, a prescindere da ogni altra possibile considerazione, é francamente un po' troppo. Specie in questo momento. Ed é una visione, la nostra, che il resto d'Europa non ha: l' Europa, a casa sua, non ama accogliere ad occhi chiusi chiunque si presenti sul proprio territorio; e faremmo bene a prenderne atto anche noi, operando di conseguenza. Aiuti ai bisognosi, sì; assistenza, sì: ma nella loro nazione, poiché non devono essere sradicati dal loro habitat naturale, dalla loro storia, dalle loro tradizioni, poiché crescendo lì potranno aiutare anche altri loro concittadini a superare analoghe difficoltà.
 
Roma, 18 Maggio 2013                                             Giuseppe Bellantonio
 (segue)


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