Le
ricchissime liquidazioni (ma vogliamo parlare anche delle
pensioni?...) di cui godono molti manager, qualora l'ente per il
quale hanno operato/collaborato abbia risultati negativi – ovvero,
si scoprano successivamente cattivi investimenti o perdite simulate o
marchingegni per eludere il fisco ovvero appropriarsi illecitamente
di somme di denaro -, devono essere confiscate. E' oltraggioso e
ridicolo che soggetti che con la loro
impreparazione/incompetenza/cattiva fede abbiano segnato pesantemente
le finanze di una società/ente/azienda, nell'essere allontanati da
quel posto possano godere di lautissime, ingiustificate, oggi non più
giustificabili prebende!
Il
concetto fin qui applicato molto poco in Italia, specie ai “livelli
più alti”, é che ognuno debba rispondere delle proprie azioni,
anche patrimonialmente: quando si mette una firma, quando si
sottoscrive un documento, quando si assume un impegno e –
soprattutto quando, ad ogni livello e funzione, si maneggi del denaro
pubblico - si deve essere consapevoli delle responsabilità al pari
dei rischi qualora su questi possano pesare superficialità e
possibili tentativi di condizionamento. Prima di ogni firma, prima di
sottoscrivere ogni tipo di documento – specie se possa avere
conseguenze per la vita, l'ambiente, la salute, la sfera delle
libertà dei cittadini, l'utilizzo delle stesse risorse
finanziarie/economiche – occorre leggerne i termini, rendersi conto
dei contenuti – della loro correttezza formale ma soprattutto
sostanziale -, analizzarli – così da valutare a priori quali
reazioni/conseguenze potranno scaturire da quell'azione – e infine
soppesarli nella loro complessiva attendibilità e quindi congruenza.
In sintesi, la sottoscrizione di qualunque tipo di documento – al
pari dell'espletamento di ogni azione, così come accade anche
nell'ambito delle professioni – deve essere sempre e comunque
un'assunzione diretta (ovvero, pro-quota)
di responsabilità a verificare la quale – periodicamente, a
scandaglio, costantemente: basta emanare delle precise disposizioni
al riguardo – devono effettuarsi dei controlli.
Lavoro:
vera emergenza sociale, persino piaga sociale! Non si può essere che
d'accordo sulla improcrastinabile duplice esigenza: consentire il
mantenimento dei già erosi livelli occupazionali (agendo su
investimenti e pressione fiscale, incentivando in assoluto l'export,
riqualificando le attività produttive aprendole alle nuove
tecnologie, ecc.), procedere alla creazione di nuovi posti/di nuove
opportunità di lavoro. Entrambi nobili intenti, sostenuti da – più
o meno – altrettanto nobili, preoccupate, accorate parole: almeno
per quanto ci é dato ascoltare e leggerne nel quotidiano. Ma ancora
non è definito, e quindi non é chiaro,
chi/come/quando/assumendosi-quali-responsabilità farà qualcosa in
questa direzione e soprattutto con quali mezzi: già, perchè per
creare posti di lavoro (questo significa che alla pubblicazione della
notizia circa la creazione di posti di lavoro, io possa telefonare
all'amministratore politico competente/interessato per chiedergli a
che ora, presso quale indirizzo e con quali documenti dovrà
presentarsi un mio figlio per aspirare a fruirne) significa aver
prima un'idea chiara ossia in quali settori specifici – produzione,
industria, commercio, turismo, servizi... - in quale tipo di azienda
investire e come farlo (a fondo perduto, con agevolazioni, con
intervento misto pubblico e privato, ecc.). Soprattutto devono essere
investimenti produttivi: non una panacea per dare lavoro per un anno
e poi assistere alla chiusura dell'attività per carenza di commesse
ovvero di sbocchi commerciali; mi spiego ancora meglio: è inutile
pensare a nuove opportunità di lavoro per chi fabbrica fiammiferi,
se ormai non se ne usano più. Meglio riqualificare in modo
intensivo e rapido la manodopera in cerca di ricollocamento
re-indirizzandola verso attività che prevedano una domanda
attraverso la quale poter collocare il prodotto. Lo stesso dicasi
per il settore “impiegatizio”: sarebbe ora che un qualche
autorevole esponente delle Istituzioni parlasse ai giovani, magari a
reti unificate, per dire loro che sì è bello studiare, giusto
aspirare ad un posto, corretto ambire a rendersi autonomi,
emozionante ambire a formarsi una famiglia, utile programmarsi un
futuro, ma che oggi il mercato offre solo queste “X” o “Y”
possibilità, per cui é giusto ambire ma difficile poterle
realizzare, almeno per il momento. Occorrerebbe però non mortificare
la speranza di chi ascolta e aggiungere che si provvederà a chiamare
dalle liste dei disoccupati per coprire ciò che la domanda propone,
provvedendo lo Stato – attraverso i suoi migliori uomini del
settore insegnamento – ad insegnare a questi giovani (che hanno
studiato da “impiegato”, magari) a fare quei lavori di mestiere
che oggi possano risultare scoperti. Vuoi lavorare? Ti aiuto in ogni
modo, ma anche tu aiutati! Meglio accettare un posto di lavoro,
certamente diverso da quello cui si poteva originariamente aspirare,
ma immettersi nel circuito del lavoro e cominciare a guadagnare: a
cambiare e migliorare, ci sarà sempre tempo. C'é chi vuole
costruirsi una famiglia, non ha lavoro o lo ha perso? Io Stato ti
aiuto: ti do un po' di buona terra, te l'affido senza oneri per “X”
anni, ti insegno – tramite personale qualificato – a fare il
contadino (trarrai così dalla Natura il tuo cibo), a costruirti una
casa (ti anticipo io il materiale), a garantirti di assorbire i tuoi
prodotti all' “X”% (immettendoli sul mercato) mentre per l'altro
“X”% penserai tu a collocarli. D'altronde quante generazioni
sono nate e si sono moltiplicate all'insegna del lavoro nei campi?
Non é forse vero che moderne scuole di pensiero, tra cui spiccano
Pontefici e Premi Nobel, sostengono la necessità di fermarsi e
riflettere attraverso una sana de-crescita, una devolution (ossia, un
“ritorno”) a più antichi e consolidati valori e attività, per
riprendere contatto con se stessi e con il mondo, ripristinando il
giusto equilibrio con la Natura. Un modo sano di crescere – come
ci ha insegnato la Storia – pur se faticoso. Ma è meglio un
lavoro onesto, anche pulire i vetri ai semafori, piuttosto che non
sbandare nelle attività illegali: droga, prostituzione, furti.
Occorrerà
anche procedere ad una nuova edizione delle liste di collocamento
partendo da presupposti diversi (detto elenco, ed il relativo
computo, non possono recare dati drogati),
distinguendo gli aspiranti per categorie: disoccupati, inoccupati,
soggetti in cerca di prima occupazione, cassaintegrati, soggetti in
mobilità, iscritti ai corsi di studio, non possono convergere un
unico grande dato. Questo, sarebbe drogato per la complessità
delle voci ma non sarebbe attendibile nel radiografare la realtà dei
fenomeni. Si dovrà poi passare a convocare i soggetti, proponendo
poi le possibili opportunità: tre tentativi; mi dici di no? Allora
devo ritenere che tu non intenta lavorare, così che potrò passare
ad un'altra persona che magari sarà felice dell'opportunità che
potrà essergli prospettata; ma non potrai più godere di alcun
sussidio, né essere più iscritto alle liste per un anno.
Modifiche
fondamentali devono essere rivolte a rimodulare la CIG: le odierne
esperienze stanno dimostrando che questo strumento, pur se applicato
con fini importantissimi e utilissimo per affrontare situazioni di
emergenza lavorativa (ma non tutte
le situazioni, nel loro complesso: l'altra faccia della medaglia
vedrebbe celebrata la morte della produttività nazionale e lo Stato
impossibilitato a surrogare tale ruolo, peraltro posizionandosi come
semplice erogatore di provvidenze. Ruolo che comunque si
esaurirebbero rapidissimamente, segnando – questa volta sì – la
fine del nostro sistema), dissangua risorse strategiche. Sarebbe
forse meglio, allora, dirigere queste energie preziose in
investimenti produttivi (chiedo scusa della specifica: é ovvio che
investire in qualcosa di improduttivo appaia invero sciocco, ma mi
sembra che in considerazioni del genere siano già scivolati illustri
soggetti, troppo interessati a mantenere sacche di consenso con le
tasche altrui) ove ri-collocare – previa quella nuova formazione
cui mi riferivo prima, e che possa renderli idonei alle nuove
mansioni – queste persone, questi lavoratori. Credo che chi
ambisca lavorare per guadagnare e guadagnare per vivere e far vivere
la propria famiglia, non sottilizzerà se oggi lavora nella meccanica
e domani potrà lavorare – con i dovuti insegnamenti – nel
tessile, ad esempio; penso che l'importante sia lavorare: é inutile
l'attesa davanti ai cancelli chiusi di una fabbrica, che non si sa
se e quando riaprirà i battenti. Mi spiego ancora meglio: ogni euro
dato deve rappresentare un “investimento” diretto a creare non
solo una parentesi di solidarietà ma, in concreto, indirizzato alla
produttività; deve quindi essere un “investimento produttivo”.
Allora c'è un significato sociale ancora maggiore che non
l'esercizio della semplice solidarietà: tutto deve essere
dimensionato alla crescita.
Ovviamente
auspicabile, una forte spinta al settore dell'edilizia pubblica,
mentre grandissima, concreta e rapida attenzione potrebbe essere
rivolta ad un settore che mi sembra fin qui non trattato e che invece
riguarda molti aspetti della nostra vita. Come noto l'Italia é un
Paese sismico, e fin qui niente di nuovo; é noto che l'introduzione
dell'obbligo di edificare con tecniche antisismiche è di fatto
recente e riguarda il nuovo, trascurando il preesistente: e fin qui
niente di nuovo; é noto che i movimenti tellurici non si sono certo
esauriti e che anzi, si prevede che possano – pur se nel tempo -
intensificarsi a causa dell'enorme spinta subita per il
movimento/scorrimento verso N-NE della placca africana in contrasto
con la placca europea, con pieno coinvolgimento del fronte italiano;
é noto che la caldera ove insiste il Vesuvio, così come
testimoniano i rilevamenti da satellite, é una bomba innescata che
non sia sa quando deflagrerà: disastrosamente e con potenziale gran
numero di vittime; é noto che i più recenti terremoti, pur se
contraddistinti da indici energetici non disastrosi, hanno prodotto
molti danni poiché sviluppatisi relativamente in superficie. Tutte
cose note, come é noto che lo Stato ha messo a punto un automatismo
sulla cui base, anche al verificarsi di terremoti con conseguenti
danni, la leva fiscale scatta immediatamente alzando il prelievo a
favore dello Stato sulla vendita dei carburanti: un rimedio, almeno
in parte, ma non certo una soluzione. Allora, perché non lanciare
una grande campagna affinché le “vecchie” case (basta lasciarsi
alle spalle i centri cittadini e andare nei mille paesi e paesini
d'Italia: proprio quelli tanto belli, ma con le case costruite “come
una volta”, pietra su pietra, tufo su pietra, con calce e poco
cemento, specie “armato” con tanto ferro) vengano irrobustite.
Se la memoria non mi fa brutti scherzi, all'indomani del drammatico e
disastroso sisma in Abruzzo, gli inviati che giravano da una città
all'altra, da una paese ad una frazione, da un paesotto a un borgo,
si imbatterono in una casa che aveva ben resistito: danni
praticamente lievi mentre tutto intorno regnava la distruzione.
Intervistato il proprietario, questi informò i cronisti che
l'abitazione (se ben ricordo, una villetta ad un piano o due) era
stata restaurata di recente e poiché si trattava di una vcchia
struttura in pietra, in zona sismica, era loro venuto in mente di
“irrobustirla”: larghe fasce perimetrali in ferro, rese tra loro
solidali, a creare una sorta di gabbia; robusti reticoli
elettrosaldati internei ed esterni per costituire un contenimento al
“traballare” delle pareti in caso di sisma; rifacimento della
copertura con materiali nuovi e più leggeri (per i pesi) ma con
sistemi che, sempre nel malaugurato caso di un sisma, non
collassassero ma fossero tenuti comunque sempre insieme. Mi
chiedo: se venissero date rapide, concrete, direttive (dopo adeguato
approfondimento da parte di soggetti esperti: potrebbe darsi che il
mio “fanta-ipotizzare” abbia minor valore di un buco...
nell'acqua!) l'Italia potrebbe diventare tutto un cantiere.
Abitazioni molto più sicure, piccoli paesi che ritroverebbero una
nuova realtà (che senso ha definire “centro storico” solo
agglomerati di vecchie costruzioni, senza poterle neanche poterle
manutenere perchè piene di vincoli e vincolini? Che senso ha avere
paesi cui la poca assennatezza degli amministratori ha diviso in due,
tre parti, sottoposte ora ai vincoli di un ente-parco ora a quelli
paesaggistici ora di antrambi: con il pratico risultato che chi
desiderava edificare ha abbandonato il “centro” (svuotandolo) per
recarsi nell'area periferica (di fatto divenuta la new-town).
Non sarebbe utile, ferma restando l'applicazione di semplici quanto
corretti vincoli, dare la possibilità ai cittadini di ogni centro
abitato di potersi pronunciare in una libera consultazione al fine di
modificare gli attuali ed intangibili “piani regolatori” in più
elastici “piani di fabbricazione”? Benefici: rilevanti, sotto il
profilo della propulsione edilizia, delle opportunità originate da
nuovi posti di lavoro, dai ritorni fiscali (incentivi con il
meccanismo della detraibilità), eventuale emersione del “nero”
dal momento che i lavori dovrebbero essere condotti da imprese
“vere”, “registrate” e “fiscalmente” rilevate.
E'
indispensabile che a corredo del mio pensiero, aggiunga una cosa:
dove trovare
Una
nota a parte – e ben più lunga e dettagliata potrebbe essere –
la dedico alla trattazione degli impulsi che sembrano pervadere
questo o quel soggetto politico, questa o quella parte politica,
nella trattazione della tematica legata alla sfera dei diritti
racchiusa nel concetto di ius
soli.
Utile e ovvia premessa é quella che non sussiste in me volontà
discriminatoria o razzista o alternativo-ostativa della solidarietà.
Ma è pur vero che per esercitare la solidarietà e quant'altro di
bello/utile/valido/nobile possa esservi, occorre che la solidarietà
sia prestata con animo intenso e disinteressato, ma anche che vi
possa essere un ritorno nell'impegno: così che, chi riceve
solidarietà, possa essere messo anche in condizione di poter
esprimere analogo impegno. Ciò detto, e preso atto di quella che é
la realtà sociale/economia/finanziaria/sanitari dell'Italia, con un
drastica e drammatica revisione/riduzione dell'assistenza sanitaria
(con moltissimi scosti diretti ed indiretti a carico del cittadino),
non si può non prendere atto che sic
rebus stantibus
non possiamo garantire alcuna accoglienza in quanto non abbiamo né
lavoro né pane neanche per i nostri figli (basta vedere le
statistiche, comunque per difetto, delle famiglie al di sotto della
soglia di povertà o al limite di essa), per cui sarebbe difficile se
non impossibile sfamare/mantenere altri soggetti che intendano unirsi
agli abitanti di questo nostro Paese. Parlandone chiaro
pubblicamente, anche e soprattutto in sede di stampa estera, non ci
possono essere fraintendimenti; del pari bisogna spiegare chiaramente
che ogni risorsa disponibile deve essere rivolta alla popolazione
ancor prima che agli “ospiti” cui – peraltro – ciò che può
essere offerto in regime di assistenza neanche basta, visto che
nell'ascoltarli tutti sono pronti a parlare di “loro diritti”,
reclamandoli peraltro a gran voce, dichiarandosi spesso persino
“trattati male” ovvero al di sotto di quello che “si
aspettavano”. E' quindi inutile mantenere i costi assolutamente
improduttivi dei vari “campi” così come non è più pensabile
poter elargire provvidenze e benefici mensili a chi non è italiano,
ma è pur sempre ospite – affatto temporaneo -: sarebbe meglio
destinare queste risorse economiche ai figli d'Italia senza un lavoro
o che non riescono a pagare le rette scolastiche o alle famiglie già
in fascia di sopravvivenza, piuttosto che non continuare a “dare
senza nulla avere” a chi disdegna comunque (è la storia a dirlo)
il lavoro normale, preferendo riferirsi ad una visione di tipo
tribale con un tipo di vita che per noi é impensabile ma che viene
ricondotto ad una “loro diversa e opposta cultura”. “Cultura”
- anzi pseudo-cultura – che dovrebbe essere da noi accettata: anche
obtorto
collo!
Almeno Secondo i teoreti di una integrazione di fatto impossibile:
già perché – anche questo é provato, oltre ogni ragionevole
dubbio – il concetto di “integrazione” ovvero l'aspirazione
alla stessa, é naufragato persino clamorosamente in ambito europeo
(l'esperienza tedesca al riguardo ne fu un'anticipazione, neanche un
po' presa in esame dalla nostra classe amministrativo/politica); i
primi a dimostrare di non volersi integrare nelle realtà
socio/politiche (intese nel senso più ampio del termine polis)
ospitanti furono proprio gli immigrati/gli stranieri, che così
costituivano dei loro nuclei compatti per etnia/fede/visione
amministrativa/usanze, gestiti internamente con le stesse regole
vigenti nel loro paese d'origine: spesso in contrasto quando non in
conflitto con quelle dello stato estero ospitante. In sintesi:
soggetti disposti a cogliere le opportunità di lavoro, capaci di far
valere quei diritti che lo stato ospitante concede loro, ma
fermamente intenzionata a mantenere i propri costumi, le proprie
usanze, le proprie modalità di vita sociale/politica/religiosa.
Altro
che “integrazione”!
Accantonato questo "sogno" a lungo accarezzato da certa intellighentia nostrana (quella ricca e nazional-popolare, quella demagoga e populista che non dividerebbe la sua casa con una famiglia rom..., quella che parla dei bisogni e della fame altrui mentre si titilla il palato con cibi e vini prelibati e costosi, quella che indossa abiti costosi e non dona un euro ai bisognosi, quella che si commuove per un disperato in cerca di lavoro o per un bambino malnutrito o per le pensioni da fame di centinaia di miglia di pensionati senza offrire un minimo contributo - salvo le tante morbide, umide, eccessive parole - alla "ricostruzione" di quest'Italia lacerata da divisioni, odi, incomprensioni, spinte ribelli) bisogna
allora investire ancor di più nell'attuazione ottimale di una
società “multirazziale”, con regole precise valide per tutte le
parti interessate; soprattutto occorre fermare questa spirale
perversa che assorbe risorse che potrebbero essere invece destinate
agli italiani, ai disoccupati, ai giovani che cercano inutilmente
lavoro! Non si può pensare di poter ancora sostenere quelli che sono
dei “lussi”, ovvero “solidarietà mal indirizzata” verso chi
non intende lavorare, non ha cultura del lavoro, preferisce
delinquere in quanto fa parte delle proprie “usanze”, ma pretende
di essere mantenuto, di avere questo o quel diritto, non avendo
peraltro alcunché da perdere. Bisogna avere il coraggio di dire:
fino a ieri si é potuto fare così, da oggi non é più possibile e
quelle poche risorse che abbiamo dobbiamo indirizzarle verso gli
italiani. Qui lavoro per ora non ce n'é, per cui è inutile che
veniate in Italia – magari a rischio della vostra vita ed a caro
prezzo -, non possiamo accogliervi, non possiamo sfamarvi, non
possiamo darvi alcuna assistenza sanitaria (visto che l'abbiamo
ridotta drasticamente agli stessi italiani), non possiamo darvi un
tetto. Tutto qui: poi si vedrà, non appena la situazione
migliorerà. Ciò che potremo fare, lo faremo a vostro vantaggio
mandando aiuti nella vostra terra: anche perchè – e questo non è
mai stato sottolineato abbastanza – le radici di ogni essere, di
ogni popolo, vanno rispettate e salvaguardate; così, è più giusto
aiutare questi nostri fratelli (sicuramente più sfortunati di noi:
almeno secondo i nostri parametri) a crescere nella loro terra senza
che debbano allontanarsi dai suoi valori, dalle sue tradizioni, dai
suoi ricordi, piuttosto che accoglierli in un modo che in ogni caso
non é soddisfacente. Penso, infatti, che non sia dignitoso - per
questa gente che arriva, con troppe speranze e spesso con pretese
proporzionali ad esse, e quindi sovradimensionate – essere
mantenuti, sfamati, vestiti (tutte condizioni che rientrano nella
comune definizione di “assistenza”): senza altri sbocchi, poiché
é da tempo che non ve ne sono. La stessa cifra del loro “costo”
giornaliero in Italia, qualora fosse resa loro disponibile nel loro
paese d'origine, avrebbe sicuramente molto, molto, più valore e
consentirebbe di poter “fare” più cose e maggiormente
produttive.
Senza
contare che, al di là della sensazione positiva ed i voli pindarici
che il “bene” ed il “far del bene” ci fanno fare, la realtà
di queste situazioni è drammaticamente sotto i nostri occhi:
esistono dei racket
che presidiano in modo capillare ogni settore della vita dei c.d.
“extracomunitari” ( ma non solo!), dall'accattonaggio (anche con
il coinvolgimento di minori), ai semafori, agli ambulanti, alle donne
in strada e di strada, allo spaccio di stupefacenti, ai furti. Non
si continui quindi a sostenere il leit-motiv
propagandistico/elettorale sulla cui base tutta questa massa di
soggetti costituisca una risorsa
(ancor peggio se intesa quale rimpiazzo di soggetti italiani che, pur
sostenendo di essere in cerca di lavoro... in realtà lo disdegnano):
ho conosciuto splendide persone, straniere, che con dignità, forza e
coraggio si impegnano quotidianamente in mille piccole attività;
modeste ma affrontate sempre con dignità e onestà. Così come ci
sono italiani onesti e italiani disonesti, anche tra gli
stranieri/extracomunitari avviene ciò: e le male azioni degli uni
non possono contagiare gli altri. Ma da qui a sostenere che tutti
possano costituire (in positivo) una risorsa
e che tutti
vadano protetti o che tutti
debbano beneficiare di assistenza e quant'altro, a prescindere da
ogni altra possibile considerazione, é francamente un po' troppo.
Specie in questo momento. Ed é una visione, la nostra, che il
resto d'Europa non ha: l' Europa, a casa sua, non ama accogliere ad
occhi chiusi chiunque si presenti sul proprio territorio; e faremmo
bene a prenderne atto anche noi, operando di conseguenza. Aiuti ai
bisognosi, sì; assistenza, sì: ma nella loro nazione, poiché non
devono essere sradicati dal loro habitat
naturale, dalla loro storia, dalle loro tradizioni, poiché crescendo
lì potranno aiutare anche altri loro concittadini a superare
analoghe difficoltà.
Roma, 18 Maggio 2013 Giuseppe Bellantonio
(segue)
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